In queste ore gli italiani stanno
scegliendo chi li governerà nei prossimi cinque anni e per fortuna
l'attenzione è caduta anche sul modo di sostenere la cultura, un
bene fondamentale per il nostro Paese. Tanti lavoratori (attuali e
potenziali) sono interessati a questo argomento e quindi è bene che
anche da parte nostra si esprima un'opinione. Già in passato (e non
ci ripeteremo) abbiamo confutato la tesi per la quale, per alcuni,
“con la cultura non si mangia”. Sarebbe troppo facile liquidarla
dicendo che è “una boiata pazzesca”. Diciamo che è interessante
capire da dove essa tragga origine: indubbiamente da una visione
rozza e semplicistica dell'andamento e dello sviluppo della nostra
società. Purtroppo però la tesi contraria (mangiare con la cultura)
pecca di un limite altrettanto grave: identificare la cultura come
mantenibile solo a condizione che lo Stato assicuri uno stipendio
fisso agli operatori della cultura. Si è fatta strada allora una
“terza via” quella di promuovere l'intervento dei capitali
privati nella cultura, con un mix di soluzioni a volte rimaste solo a
livello di intenzioni a volte con risultati contraddittori e comunque
a loro volta oggetto di polemica. La colpa ricade un po' anche sul
mondo della cultura italiana che non ha mai perso il vizio di
“schierarsi”. Chi ha un po' più di anni sulle spalle e queste
vicende le ha seguite fin dagli anni '60 non può però non cogliere
un tratto caratterizzante dell'evoluzione di questa diatriba fino ai
nostri tempi. Ossia che una volta si combatteva in nome di una
ideologia, poi, più avanti, la motivazione era individuabile
nell'aver conservato o meno un “ideale”, ora (che sono spariti
sia le ideologie che gli ideali) l'essenza di tutto è nei soldi. Si
parte dalla propria storia per schierarsi in un limitato ventaglio di
partiti, da lì si cercano poltrone, occasioni di lavoro,
finanziamenti o, quanto meno, uno stipendio fisso e, sempre per i
soldi, si è disposti a fare, in campo culturale, il salto della
quaglia, inventandosi crisi di coscienza e susseguenti rivoluzioni di
pensiero. Portandosi dietro sempre “il nuovo” come bandiera
imprescindibile (ma un po' inflazionata). In sintesi: un processo di
scilipotizzazione della cultura italiana. Grazie a dio, in base alla
nostra Costituzione, la Cultura è un ambito libero per definizione
e, come noto, l'essere umano, essendo dotato di libero arbitrio, può
fare e andare dove meglio crede. I lavoratori (attuali ma soprattutto
potenziali) del cosiddetto settore culturale hanno ormai imparato
(come quelli dell'istruzione o dell'università) a non farsi
eccessive illusioni, pur avendo, magari, in tasca uno o più titoli
di studio di elevato livello anche se nel contempo col desiderio di
incrementare anche la propria esperienza lavorativa e di mangiare,
farsi una famiglia o migliorare la vita di quella che già si ha. Noi
non abbiamo pregiudiziali ideologiche nei confronti del ritorno (in
realtà più o meno ci sono sempre stati) dei Mecenati (i privati)
nella cultura italiana oppure nei confronti di meccanismi di
incentivazione fiscale che tocchino questo mondo oppure nel
rafforzamento dell'intervento di organi pubblici nei tipici casi nei
quali l'intervento diretto dei privati sarebbe o inopportuno o
improbabile per scarsa convenienza economica. Diciamo solo che non si
può ridurre la lotta sindacale nella mera difesa di posti e
retribuzioni fisse o di istituzioni decotte perché, anche in caso di
vittoria la stessa sarebbe soggetta al futuro ricatto economico dei
vincoli alle risorse di bilancio e a quello politico del dover
seguire gli input politici della classe dirigente al governo in quel
momento e che magari ti ha fatto il “favore” di “salvarti” a
spese del contribuente. Non sarebbe più una cultura veramente
libera, quindi. D'altro canto non crediamo sia necessario, per
l'ennesima volta, richiamare quali siano gli enormi pericoli per la
cultura derivanti da un eccessivo, incontrollato e selvaggio ingresso
dei privati . Non parliamo poi della nefasta esperienza della
lottizzazione politico-partitica di tante istituzioni culturali. E
ovviamente non si può chiedere a un sindacato che abbia a cuore gli
interessi dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti di non
indicare questi pericoli, di non intervenire per ostacolare certi
processi e operazioni speculative. Anche i lavoratori della cultura,
se si ritengono veramente portatori di istanze decisive per una
società migliore, devono cominciare, su queste questioni (che
riguardano il prosieguo o i presupposti di una loro eventuale
attività lavorativa) , a pensare e scegliere più con la loro testa
che con quella dei partiti, dei sindacati, degli enti e istituzioni
nei quali fino ad oggi hanno creduto e a cui in parte hanno affidato
il loro destino. E dire se per loro è più importante considerare
come traguardo il posto e lo stipendio fisso oppure iniziare a
rischiare con tutti quei cittadini che, da altri punti di partenza,
sono rimasti anch'essi esclusi da una prospettiva di sicurezza. Come
possono pensare i lavoratori della cultura di affermare che la
cultura è libertà vera delle menti e condivisione di assetti più
avanzati di convivenza civile se continuano ad affidare e a
incanalare le proprie speranze in organismi che li hanno sempre mal
sopportati e trascurati e che nella migliore delle ipotesi cercano di
tener buoni con uno stipendio fisso (temporaneo) o con finanziamenti
clientelari alle loro iniziative? E non instaurando invece un dialogo
vero con tutti i cittadini, anche quelli politicamente e socialmente
più distanti da loro?Ecco la soluzione quindi: non cadete nel
ricatto occupazionale, stipendiale e dei finanziamenti, impegnatevi a
interagire con tutti i cittadini (soprattutto con coloro oggi più
distanti da voi) scavalcando i vostri finti sostenitori e sostenendo
le idee di quell'intellettualità che da tempo individua modelli
diversi e alternativi di sviluppo, culturale e materiale.