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La “portata pervasiva” dell'obbligo di protezione dei lavoratori alla prova del Covid-19 |
24 Aprile 2020 | Andrea FerrarioResponsabilità
del datore di lavoro
SOMMARIO |
Premessa | La
disciplina di riferimento | L'emergenza
epidemiologica e i nuovi possibili scenari | La
prospettiva datoriale | La
posizione del lavoratore | Conclusioni |
Premessa
La
recente emergenza sanitaria legata alla diffusione pandemica del
c.d. coronavirus sollecita, oltre al resto, un ampio spettro di
spunti problematici e operativi riguardanti il tema della sicurezza
dei lavoratori e dei connessi - stringenti - obblighi di prevenzione
del rischio biologico generalizzato incombenti sul datore di lavoro.
Più in particolare, i nodi critici e di discussione fin qui emersi
con maggiore ricorrenza attengono alle specifiche strategie formali
e pratiche da adottarsi a cura della figura datoriale. Ciò sia in
relazione al rafforzamento delle condotte prevenzionistiche e al
loro coordinamento con quelle già in atto, sia con riguardo
all'adozione di nuovi presidi di sicurezza e metodologie di lavoro
commisurati all'emergenza, con particolare riferimento allo
strumento già da tempo espressamente disciplinato nel nostro
ordinamento (artt.
18-23, l. 22 maggio 2017, n. 81)
del c.d. smartworking (su
tale ultimo punto, cfr., in particolare, L. Pazienza, “Il
lavoro agile, c.d. smartworking, nel periodo di emergenza da
coronavirus: forme di tutela del lavoratore dipendente”,
in questa Rivista, 25 marzo 2020). L'insidiosità dell'urgenza
epidemiologica e la eventualità che essa possa dilatarsi nel tempo,
schiudono tuttavia anche ulteriori interrogativi e piani di analisi.
La
sussistenza di un grave rischio biologico incombente in modo diffuso
e pressoché indifferenziato su qualunque organizzazione di lavoro,
renderà invero opportuno un attento scrutinio circa l'impatto di
questa nuova tipologia di rischio sul vigente sistema della colpa
datoriale e sul correlato sistema risarcitorio e di tutela del
lavoratore. In questa ottica l'attuale latitudine, già molto ampia,
degli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza e, per contro,
la necessità che un eventuale danno a carico del lavoratore non
venga comunque lasciato là dove è caduto, imporranno forse
soluzioni nuove o comunque ispirate a grande prudenza e equilibrio.
Con il duplice obiettivo di non amplificare in misura insostenibile
i doveri datoriali di protezione, la cui portata è stata
plasticamente definita “pervasiva” (Cass. civ.,
sez. Lav., 25
novembre 2019, n. 30679)
e di assicurare nel contempo, e se del caso ampliare, l'effettività
degli strumenti di tutela a beneficio del lavoratore.
La
disciplina di riferimento
La
norma base in tema di sicurezza sul lavoro è, come noto, la
previsione di cui all'articolo
2087 c.c.. La
disposizione, che riflette fondamentali principi costituzionali tra i
quali, in particolare, il diritto alla salute (art. 32) e la
necessità che l'iniziativa economica privata preservi la sicurezza,
la libertà e la dignità della persona umana (art. 41), con speciale
riguardo alla condizione del lavoro femminile e dei minori (art. 37),
ha una portata semantica e precettiva molto ampia. Essa esprime in
primo luogo un enunciato generale, che si articola poi in concreto
nell'ambito della complessa disciplina speciale antinfortunistica, di
cui rappresenta uno dei principali capisaldi il d.
lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo
Unico sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di
lavoro). L'art.
2087 c.c. svolge
però, al tempo stesso, una fondamentale funzione di chiusura del
sistema di sicurezza e prevenzione, imponendo all'imprenditore il
rispetto, non soltanto delle misure espressamente imposte dal sistema
positivo, ma anche di quelle dettate dalle buone prassi,
dall'esperienza e dalla tecnica nonché dalla comune prudenza (v., ex
multis, Cass.
civ., 4 giugno 2019, n. 15167).
E, ancora più in generale, di quelle che si rendono “necessarie”
in vista dei rischi potenziali o in atto nell'ambito dello specifico
contesto lavorativo. Con l'esplosione dell'emergenza
epidemiologica a questa disciplina si è quindi aggiunta una nutrita
serie di provvedimenti legislativi di vario rango finalizzati al suo
contrasto, contenenti anche svariate disposizioni prevenzionistiche,
completate poi da accordi collettivi tra le Parti Sociali. Questi
ultimi, pur dotati di diversa valenza e con l'efficacia propria del
relativo strumento, hanno ulteriormente corredato il dispositivo con
specifico riferimento alla sicurezza degli ambienti lavorativi.
Profilo questo peraltro già ampiamente disciplinato anche da
disposti normativi precedenti, benché in una prospettiva differente
(si veda, ad esempio, in tema di dispositivi di protezione
individuale, l'art.
18, comma1,
lett. d del citato d.lgs. 81/2008).
Di particolare rilievo, tra i provvedimenti dell'esecutivo, i
successivi DPCM dell'8, 9, 11 e
22 marzo
2020, i D.L. n.
9 del 23
febbraio 2020, n.
18 del 17
febbraio 2020, n.
18 del 17
marzo
2020,
oltre ad ulteriori misure contingenti o di dettaglio emanate sia
dallo stesso governo centrale che dalle amministrazioni locali. In
ambito confederale merita invece una specifica menzione il Protocollo
del 14 marzo 2020 condiviso tra organizzazioni datoriali e sindacali
e inteso a regolare in concreto le “misure
per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus
Covid-19 negli ambienti di lavoro”.
Tale ultimo documento, la cui cogenza è stata correttamente
revocata in dubbio (cfr. sul punto, P. Pascucci, “Sistema
di prevenzioni aziendale, emergenza coronavirus ed effettività”,
in Giustizia
Civile.com,
17 marzo 2020) appare peraltro di grande rilievo pratico,
rappresentando una sorta di ampio e assai dettagliato decalogo
operativo che, unitamente ad altri strumenti analoghi “generalisti”
elaborati nel corso dell'emergenza (tra i tanti, il
“Decalogo”del 24 febbraio 2020, curato dall'ISS e dal Ministero
della Salute) potrà forse utilmente affiancare le disposizioni
legislative e regolamentari, come autorevole - ancorché non
direttamente impegnativo - parametro esterno per l'individuazione di
un livello minimo e standardizzato di sicurezza dell'ambiente di
lavoro.
L'emergenza
epidemiologica e i nuovi possibili scenari
Come
si accennava dianzi, il dilagare dell'epidemia e la eventualità che
essa si converta, dopo la fase di picco, in un rischio biologico
generico con un trend ridimensionato
ma anche più duraturo, pone talune prime questioni incidenti sul
quadro complessivo dei doveri e della responsabilità dei datori di
lavoro. Ma solleva anche taluni e in parte inediti interrogativi
circa il possibile impatto concreto che la stessa emergenza avrà sul
sistema di garanzie a tutela dei lavoratori. Entrambe le tematiche
non possono all'evidenza, almeno in questa prima fase, che essere
abbozzate in un'ottica necessariamente ipotetica o teorica, di
prima lettura. Alla messa a punto di una più efficace e rigorosa
valutazione di impatto del fenomeno manca infatti per ora
l'imprescindibile complemento di quelle verifiche “sul campo”
alle quali assisteremo nei mesi a venire e che, con ogni probabilità,
daranno corpo al futuro dibattito scientifico e tecnico. Pur in
vista di questa doverosa premessa metodologica, veniamo dunque
al primo dei temi di riflessione in evidenza, afferente cioè
alla posizione datoriale.
La
prospettiva datoriale
Sotto
questo primo profilo è ragionevole attendersi che l'emergenza
epidemiologica e le sue verosimili sequele amplieranno in modo
tutt'altro che trascurabile il sistema dei doveri di sicurezza
incombenti sui datori di lavoro a tutela dei propri dipendenti. In
questa prospettiva vanno intanto annoverati gli obblighi meramente
formali (a tale riguardo sembra opportuno ricordare incidentalmente
che non sembra ad oggi definitivamente risolta la questione in ordine
alla sussistenza di un obbligo di aggiornamento del DVR ex art.
29, comma 3,d.lgs.n. 81/2008,
cfr. sul tema A. Rossi, Al
lavoro in sicurezza ai tempi del Covid-19,
ne ilgiuslavorista.it,
23 marzo 2020) ai quali si aggiungono quelli operativi di
comportamento attivo, adattamento e compliance con
i vari obblighi prevenzionistici posti dalla disciplina emergenziale
e non. Ma a prescindere dall'assolvimento di questi obblighi e in
considerazione della natura alquanto subdola e pervasiva di questo
particolare rischio biologico, bisogna soprattutto chiedersi in
presenza di quali condizioni il dovere datoriale di prevenzione possa
dirsi davvero - in questo mobile e del tutto inedito scenario -
compiutamente assolto e ragionevolmente pretensibile e fino che punto
e con quali implicazioni possa esser individuata una posizione di
effettiva responsabilità datoriale. Come si accennava in premessa,
anche talune recenti decisioni di legittimità hanno declinato
l'obbligo di prevenzione e sicurezza datoriale in termini di
particolare rigore ed ampiezza. Secondo la recente pronuncia della
Suprema Corte, (Cass.
civ., n. 30679/2019 cit.),
l'assetto della colpa andrebbe collocato “all'interno
di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere
un'attività rischiosa, è tenuto a predisporre quanto necessario per
evitare pregiudizi a terzi”.
Da qui, tenuto anche conto che l'organizzazione lavorativa è
espressione di un “interesse
proprio del datore di lavoro”,
la necessità che i presidi di sicurezza risalgano alla
“responsabilità
primaria datoriale”
e che dunque l'obbligo datoriale di protezione rivesta in questo
ambito una “portata
pervasiva”.
Gli
estensori del dictum dianzi
menzionato e un'ancora più recente decisione di legittimità (Casss.
civ., sez. lav., sent. 11 febbraio 2020, n. 3282)
nel riconoscere all'art.
2087 c.c. una
fondamentale funzione “dinamica” rispetto alla tutela della
sicurezza, escludono nel contempo a chiare lettere che tutto ciò
valga ad annunciare un superamento del dogma della responsabilità
per colpa (e ancor meno, si potrebbe aggiungere, che ciò equivalga
ad un'adesione alle note teoriche anglosassoni sul c.d. rischio di
impresa). Ciò nondimeno, la eccezionalità e la non ancora compiuta
conoscenza scientifica del nuovo rischio epidemiologico impongono
forse una riflessione sulla effettiva sostenibilità, quanto meno
rispetto alle specifiche sfide poste da una tale emergenza, di un
modello di responsabilità datoriale colposa, ma “pervasiva” o
“dinamica” che dir si voglia. E che rischia tuttavia, soprattutto
in realtà organizzative medio-piccole, di produrre effetti assai
gravosi e forse indesiderabili. Una delle principali criticità, di
cui si darà conto anche nella diversa prospettiva del lavoratore,
discende ad avviso di chi scrive dalla estrema difficoltà, già sul
piano eziologico, di ricollegare con accettabile grado di certezza
l'eventuale contrazione della patologia ad un'effettiva occasione di
lavoro. Secondo i primi approdi della ricerca scientifica, l'agente
patogeno Covid-19 è caratterizzato da un accentuato grado di
infettività e dunque potrebbe risultare difficoltoso in concreto
ricondurne la effettiva insorgenza ad una precisa fonte di contagio.
La questione epidemiologica e eziopatogenetica verrà evidentemente
dissodata in futuro negli ambiti clinici e medico-legali pertinenti.
Resta però il fatto che - che come vedremo anche più avanti - la
riconduzione della patologia ad uno specifico vettore infettivo e
dunque ad una possibile “occasione di lavoro”, se forse più
agevole in presenza di un rischio specifico, come ad esempio in
relazione ad una professione sanitaria, potrebbe diventare assai più
aleatoria in presenza di un assetto lavorativo connotato da rischio
generico. Vale a dire di un rischio assimilabile a quello proprio di
una qualsiasi altra interazione sociale in contesto familiare,
ludico, associativo, relazionale etc. A questa prima considerazione
si potrebbe aggiungere un ulteriore spunto problematico, in questo
caso connesso più da vicino al tema della latitudine dei doveri
prevenzionistici propri del datore di lavoro. La particolare
insidiosità che sembra connotare questa affezione virale potrebbe
non essere sufficientemente contrastata financo dalla più diligente
adozione dello specifico pacchetto di misure “nominate” imposte
dai protocolli dianzi citati, lasciando residuare possibili aree di
rischio e di responsabilità oggi ancora non esaurientemente mappate.
Si inserisce altresì in questa stessa prospettiva la oggettiva
difficoltà di monitoraggio costante delle condotte degli operatori
(sul punto cfr. Cass.
civ., n. 3282/2020 cit.)
e dunque il punto della valenza che potrebbe assumere in questo
contesto (si pensi banalmente all'obbligo di distanziamento o
di lavaggio delle mani) il principio di autoresponsabilità del
lavoratore e dell'incidenza dell'istituto del concorso di colpa di
cui all'art.
1227 c.c.. Ricordiamo
infine, per completare il quadro anche attraverso il prisma
processuale, il particolare assetto del riparto degli oneri probatori
in tema di responsabilità ex art.
2087 c.c. Costituisce
ormai ius
receptum il
principio secondo il quale, mentre spetta al lavoratore provare la
nocività dell'ambiente di lavoro e la ascrivibilità a questa e ad
un particolare fattore di rischio del danno alla salute, incombe
invece sul datore l'onere di dimostrare di aver adempiuto il proprio
obbligo di prevenzione avendo adottato “…
non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in
relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo
standard minimale fissato dal legislatore … ma anche le altre
misure richieste in concreto dalla specificità del rischio”
(Cass.
civ., 6 novembre 2019, n. 28516).
Ed è proprio in relazione a tali “altre misure”, non
determinate, che in un contesto così sfuggente potrebbe risultare
particolarmente gravoso il carico probatorio dell'imprenditore.
Questi messo a confronto con una tipologia di rischio inusuale,
quanto impalpabile e generalizzata, che rischia di convertire il
relativo onere processuale in una vera e propria probatio
diabolica.
La
posizione del lavoratore
Come
in una sorta di immaginario gioco di specchi, le principali criticità
dianzi riassunte potrebbero ritorcersi anche in danno del lavoratore,
evidenziando in particolare il rischio – parallelo – di possibili
vuoti di tutela. Occorre a tale riguardo premettere che, assai
opportunamente, il Legislatore ha voluto chiarire (art.
42, comma 2, del Decreto
Legge n. 18 del
17 marzo 2020,
c.d. decreto “Cura Italia”), in riferimento sia al lavoro privato
che pubblico, che l'infezione da Covid-19 di cui sia accertata la
riconducibilità ad “occasione di lavoro” deve intendersi
equiparata ad un normale infortunio sul lavoro e dunque essere
sussumibile nella medesima disciplina. In questa prima prospettiva la
copertura assicurativa antinfortunistica e la relativa garanzia
indennitaria sembrerebbero assoggettate ad un regime tendenzialmente
meno rigoroso rispetto a quello civilistico generale. Un recente
documento di INAIL (nota 17 marzo 2020, n. 3675) con particolare
riguardo, peraltro, agli operatori sanitari chiarisce come la tutela
assicurativa si estenda anche alle ipotesi “…
in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative
del contagio si presenti problematica”,
discendendone che “…
ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non
possa essere provato dal lavoratore, si può comunque presumere che
lo stesso si sia verificato in considerazione delle
mansioni/lavorazioni e di ogni altro indizio che in tal senso
deponga”.
Ma questo apparente favor,
potrebbe però essere – appunto – solo tendenziale e correlato
all'esposizione del rischio tipico, specifico proprio degli operatori
sanitari. Ciò può dunque dirsi anche in relazione alle altre
tipologie di addetti, esposti ad un rischio generalizzato e dunque di
assai più complessa individuazione, in un'ottica anche solo
probabilistica? Il quesito appare tanto più stringente se, dal campo
del meccanismo assicurativo, ci spostiamo nell'ambito della colpa
civile, il cui attuale statuto – con particolare riguardo alla sua
proiezione processuale – abbiamo dianzi tratteggiato nei suoi
momenti essenziali. Così come per il datore, potrebbe infatti
risultare in concreto quanto mai arduo anche per il lavoratore
assolvere alla parte di onere probatorio posta a proprio carico.
L'universalità del relativo rischio biologico, potenzialmente
disseminato in ogni ambito di interazione sociale, potrebbe rendere
assai difficile ricollegare causalmente l'eventuale evento avverso ad
una specifica fonte di rischio, così dimostrando la effettiva
nocività dell'ambiente lavorativo. Come evidenziato nel documento
INAIL testé citato l'identificazione della fonte di contagio
potrebbe in sostanza risultare in un numero verosimilmente ampio di
casi un'operazione alquanto “problematica” se non addirittura
impossibile. Ciò che escluderebbe il lavoratore infortunato (e i
propri superstiti) da quella più ampia tutela garantita, in
particolare, dallo strumento risarcitorio civile. Vero è che, come
ampiamente riconosciuto, un'inadeguata struttura di prevenzione del
rischio o la carenza di idonei comportamenti attivi del datore di
lavoro potrebbe legittimare il lavoratore ad avvalersi dello
strumento di autotutela di cui all'art.
1460 c.c. e
dunque rifiutare la propria prestazione lavorativa. E ciò
soprattutto in realtà aziendali rispetto alle quali, per dimensioni,
capacità economica ed organizzativa, non sia in concreto esigibile
un livello di sicurezza di altissimo standard.
Ma
è parimenti difficile negare che la straordinaria diffusività e le
caratteristiche epidemiologiche di questa affezione renderanno
alquanto complesso ogni procedimento di rigorosa ricostruzione
causale. Mettendo - anche da questo lato della barricata - a dura
prova l'efficienza del noto principio del “più probabile che non”,
soprattutto in una prima fase di comprensione e mappatura scientifica
del fenomeno e delle relative leggi di copertura.
Conclusioni
Come
accennato dianzi le peculiari caratteristiche di questa emergenza
epidemiologica, senza precedenti per diffusione e insidiosità,
potranno verosimilmente mettere in tensione anche i termini ad oggi
noti della responsabilità datoriale, allargando in modo importante e
in larga parte inedito la già ampia sfera di operatività degli
obblighi di sicurezza e prevenzione incombenti sull'imprenditore.
Allo stesso tempo le presumibili difficoltà di ricostruzione causale
del supposto evento infortunistico renderanno meno facilmente
attingibile e talora forse impossibile per il lavoratore la prova di
una effettiva nocività dell'ambiente di lavoro. Sarà dunque
imprescindibile, almeno in una fase iniziale e di assestamento,
individuare soluzioni di grande equilibrio e oculatezza. Non
potendosi, da un lato, esigere dal datore di lavoro la
predisposizione di un ambiente “a rischio zero”, né pretendersi,
in questo momento storico attraversato da una pandemia di dimensioni
universali “l'adozione
di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di
pericolo”
(Cass.
civ., n. 3282/2020 cit.).
Ma non potendosi neppure, per altro verso, indebolire i meccanismi
acquisiti di tutela del lavoratore sacrificandoli agli interessi
economici e della produzione. L'eventuale danno, dunque, non potrà
- come si diceva - essere lasciato in alcun caso là dove è
caduto.
Avv. Andrea Ferrario
studio
legale avvocato Andrea Ferrario
via
Emilio Morosini n. 24 - 20135 Milano
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02 5454378 fax 025460549
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